Babilonia - Gianmarco Parodi

Gianmarco Parodi offre une fenêtre avec vue sur le jardin des mystères, jardin suspendu d’une Babylone moderne. Un conte écologique et philosophique...

(Traduction française à la suite)

  

Avertissement : Cette nouvelle est publiée dans le cadre d’un partenariat entre le Decamerone 2020 Scrittori alla finestra initié par Gianmarco Parodi en Italie. Ce projet littéraire participatif réunissant 35 auteurs et dont les benéfices iront à Protection civile italienne est joignable ici : http://www.proimmagine.it/decameron2020/

  

  

BABILONIA

   

E poi arrivò il momento in cui chiusero il giardino. Giunse un tizio della Municipale e mise il lucchetto. Non ci poteva entrare più nessuno, neanche quelli che tornavano da fare la spesa e si sedevano un po’ a riposare. Neanche quelli che non avevano niente da fare e stavano lì perché era un giardino piccolo e nascosto e la Municipale non li avrebbe mai trovati.

Io li vedevo, però. Vedevo tutto. Vivevo a quel tempo da solo in una casa che non aveva né piani di sopra né piani di sotto. La mia finestra dava proprio lì.

Quando giunse la notizia e dissero al telegiornale che non si sarebbe potuto più uscire fino a nuovo ordine, la mia occupazione maggiore dopo l’inventario di tutti i miei averi divenne fissare quel giardino vuoto.

Cominciai a farlo come prima cosa alla mattina, appena sveglio. Aprivo la finestra e guardavo le altalene immobili e arrugginite, gli alberi spogli senza frutti, i coriandoli di febbraio che non erano stati più puliti ed erano diventati una crosta dura sull’erba gialla.

Anche se durante il giorno cercavo di occuparmi di altre cose, tipo catalogare i buoni sconto, il richiamo della finestra diveniva piano piano sempre più forte. Non provenivano più rumori da là fuori. Non c’erano nemmeno più le luci di notte perché un certo punto furono staccate anche quelle. Tutto divenne buio e silenzioso, come se non esistesse ancora.

Quando alla televisione dissero dei tanti morti in città, mi sembrò che stessero parlando di tutti quelli che venivano ogni giorno nel giardino. I tre gemelli, la suora giovane, il padre single, la maestra e il cane della maestra, il guidatore di autobus, la donna della lavanderia, il portiere del palazzo e il portiere della squadra di calcio, il marito del giudice, e poi un dottore che lo fecero anche vedere, dicendo che purtroppo non ce l’aveva fatta.

Dopo qualche giorno, senza farci caso, presi l’abitudine di gettare le bucce là fuori. Cominciai per gioco sputando un seme, e finii per gettare tutto quello che mi veniva in mente. Un bigliettino che negli anni non avevo avuto il coraggio di spedire, un paio di scarpe non mie che tenevo come una reliquia. Ci buttai un termometro rotto, che mi rispondeva di avere sempre la febbre. Poi qualche  capello bianco, una rivista con il virus disegnato a fumetto che parlava e ballava e faceva sembrare tutto molto divertente. In genere mi organizzavo per gettare le cose al mattino. Preparavo quello che sceglievo durante la notte, lo mettevo lì pronto sul cuscino e mi addormentavo contento. La prima cosa che facevo quando mi svegliavo era aprire la finestra e via.

Ma ecco che dopo un po’, quello che pensavo non fosse possibile, invece era avvenuto. Una sera, o forse già da mezzogiorno, quello che avevo gettato non c’era più. Sparito. Nessuna traccia. Scomparso. Cominciai ad appostarmi per un tempo più lungo, cercando di cogliere in flagrante chi fosse a raccogliere le mie cose, contravvenendo a tutto quello che avevo da fare e saltando anche il discorso del Presidente alla televisione. Ma quando gettai l’orologio ai piedi dello scivolo e rimasi ad aspettare per buona parte del pomeriggio vidi che quello rimaneva fermo lì, non si muoveva. Mi assentai solo il tempo di un bisogno. Quando tornai era sparito. Non è possibile, mi dissi, nessuno può avere accesso al giardino. È cintato da alti muri, la strada è fuori mano e i palazzi sono troppo lontani. Se qualcuno scavalcasse lo farebbe dal cancello attaccato alla finestra, e lo vedrei di certo. Gettai la mattina dopo una banconota da cinque. E una moneta. E un assegno.

Stetti bene attento, concentrato, ma dopo un brivido mi fu necessario chiudere la finestra. Il tempo di farlo e tutto quanto era bello che sparito. Per sopperire subito gettai un volantino di pubblicità invadente, insieme a quello di un prestito bancario, insieme al rosario da muro che era di mia nonna. Feci in tempo a tossire, che tutto era già scomparso. Allora andai a cercare qualcosa di più allettante, e mi sarei concentrato di più nella guardia. Feci scivolare fuori la televisione, il sacco della plastica e della carta, la fede che avevo sfilato dal dito morto di mia madre. Stavolta non servì distrarsi, le cose sparivano proprio sotto i miei occhi. Scomparse, ma non da un momento all’altro. Non saprei dire, svanivano come quando si fissa la luna e sembra sempre ferma, eppure basta voltarsi ed è già svanita dietro il palazzo.

Mi accorsi che più mi sbarazzavo delle cose, più il giardino diventava vivo, sempre più verde. La primavera era ormai alle porte, l’avremmo vista tutti dalla finestra ma le gemme in pochi minuti erano diventate già foglie. Dopo aver gettato la divisa della fabbrica vidi quelle foglie diventare fiori. Cercai la pistola di mio padre, il fucile di mio nonno, il binocolo di mio bisnonno e il temperino del mio trisavolo. E i fiori diventarono altri fiori dalle forme di uccelli che poi diventarono uccelli veri che iniziarono a volare e far versi. Allora spalancai l’armadio, trovati tutti i vestiti che non avevo mai messo. Tutti i libri che non avevo mai letto, e tenevo solo per arredo, li tirai giù dallo scaffale pieno di polvere. Il calendario, il telefono, le chiavi della macchina. Il giardino sotto i miei occhi era diventato un bosco pieno di vita, brulicante di animali colorati che parlano tra loro con versi differenti ma che sembravano capirsi. Alcuni con le gambe accavallate erano seduti sulla panchina, alcuni scivolavano giù con le zampe all’aria, alcuni dondolavano sull’altalena con le code che spazzavano i coriandoli. Riversai allora fuori dalla finestra le vetrinette coi souvenir dei viaggi di altri, le fotografie dei defunti, le tende oscuranti, i cibi in scatola. Aprii il rubinetto della doccia e con il tubo tirato fin fuori svuotai tutto il boiler dall’acqua calda. La pozza che si creò in poco tempo diventò un lago immenso nel quale nuotavano pesci lucenti che non avevo mai visto in vita mia. Sentivo di notte le onde infrangersi contro le pareti di casa. Infine lanciai fuori tutte le lampadine, le lampade e le torce e le pile e tutto si trasformò in musica. Non quella che poteva venire da uno strumento. Piuttosto qualcosa che ebbi la sensazione allo stesso tempo di non aver mai sentito e di non sentire da troppo tempo. Poi vidi arrivare ciò che mancava.

Giunse un uomo.

Lo fece cantando, tossendo, sputando e facendo il fragore di una catena che cadeva a terra con tutto il lucchetto. Non era nudo o coperto di foglie, ma indossava la divisa della Municipale.

Mi abbassai di scatto per non farmi vedere. Lo scorsi fare un giro di controllo, soffermarsi su ogni dettaglio. Provò l’impianto di irrigazione, tentennò se fare un giro sullo scivolo ma poi non lo fece. Restò a guardare con i pugni sui fianchi e annuendo con la testa. Dopo i passi pesanti della sua venuta il giardino era tornato tale e uguale a prima. L’erba gialla, le altalene arrugginite, gli alberi spogli senza frutti, i coriandoli di febbraio che erano una crosta dura. Andandosene, vidi che aveva lasciato il cancello aperto. Sentii allora tante voci riversarsi di nuovo dentro facendo chiasso. Litigavano per lo spazio, stavano stretti uno sopra l’altro, mucchi di gente che sbraitava. Continuavano a dire “Finalmente!” o “Era ora!”. Parlavano in barba alle mille promesse che ognuno di loro si era fatto e gridavano sputando saliva sulle labbra degli altri.

Chiusi la finestra spaventato, mi voltai.

La mia casa era rimasta vuota.

 

Gianmarco Parodi

È il curatore di questa antologia (Decameron 2020)

Nato a Sanremo nel 1986, si è diplomato alla Scuola Holden di Alessandro Baricco. Tra i suoi romanzi ci sono Tria Ora e Oblio e vari racconti per molte antologie. Ha vinto premi nazionali di poesia e fondato il Vivaio del Verso, luogo di incontro e scrittura poetica nella città vecchia di Sanremo. Insegnante di scrittura creativa per la Holden e non solo, tra i suoi corsi più famosi c’è il “trekking letterario” al rifugio Mongioie e “nella città invisibile, scrivere sulle tracce di Italo Calvino”.

 

 

 

Babylone

 

 

Et puis vint le moment où ils fermèrent le jardin. Un type de la mairie arriva et mit un cadenas. Plus personne ne pouvait plus entrer, pas même ceux qui revenait des courses et qui s’asseyaient un peu pour se reposer. Ni même ceux qui n’avaient rien à faire et qui se rendaient là parce que c’était un jardin, petit, à l’abri des regards et que la municipalité ne les auraient jamais trouvés ici.

Moi, je les voyais pourtant. Je voyais tout. Je vivais en ce temps-là, seul, dans une maison qui n’avait ni étages supérieurs ni niveaux inférieurs. Ma fenêtre donnait juste sur le jardin.

Quand la nouvelle arriva et qu’ils dirent au journal télévisé que l’on ne pourrait plus sortir jusqu’à nouvel ordre, mon occupation principale, après l’inventaire de tous mes biens, fut d’observer ce jardin vide.

Je commençais à le faire avant toute chose le matin. À peine réveillé, j’ouvrais la fenêtre et je regardais les balançoires immobiles et rouillées, les arbres dénudés, sans fruits, les confettis de février qui n’étaient plus nettoyés et qui était devenus une croûte dure sur l’herbe jaunie.

Même si, durant la journée, je cherchais à m’occuper d’autres choses, du genre classer les coupons de réduction, l’appel de la fenêtre revenait, petit à petit, de plus en plus fort. Aucun bruit ne parvenait plus de là. Il n’y avait même plus les lumières nocturnes parce qu’à un certain moment elles furent éteintes elles-aussi. Tout devint obscur et silencieux, comme s’il n’existait plus.

Quand ils parlèrent à la télévision de tous ces morts dans la ville, il me sembla qu’il s’agissait de ceux qui venaient chaque jour dans le jardin. Les trois jumeaux, la jeune nonne, le père célibataire, la maîtresse et le chien de la maîtresse, le chauffeur d’autobus, la femme de la laverie, le gardien de l’immeuble et le gardien de but, le mari du juge, et même un docteur qu’ils montrèrent aussi, disant que malheureusement, il y était passé lui-aussi.

Après quelques jours, sans y prendre garde, je pris l’habitude de jeter les épluchures là-dehors. Je commençai par jeu, crachant un noyau, et je finis par jeter tout ce qui me passait par l’esprit. Un petit mot que depuis des années je n’avais pas eu le courage d’expédier, une paire de chaussures qui ne m’appartenaient pas mais que je gardais comme une relique. J’y jetai un thermomètre cassé qui m’indiquait toujours que j’avais de la fièvre. Et puis un chapeau blanc, une revue avec un virus dessiné qui parlait et dansait et faisait croire que tout cela était amusant. En général, je m’arrangeais pour jeter les choses le matin. Je préparais ce que je choisissais la nuit, je le mettais là, fin prêt, sur le coussin et je m’endormais satisfait. La première chose que je faisais quand je me réveillais était d’ouvrir la fenêtre et, hop !

Mais voici qu’après quelques temps, ce que je pensai impossible advint. Un soir, ou bien peut-être était-ce déjà midi, ce que j’avais jeté n’y était plus. Disparu. Aucune trace. Envolé. Je commençai à me mettre en embuscade pendant un temps plus long, cherchant à prendre en flagrant délit celui qui récupérait mes affaires, négligeant tout ce que j’avais à faire et ratant même le discours du président à la télévision. Je jetai ma montre au pied du toboggan et demeurai à attendre une bonne partie de l’après-midi, mais je constatai que celle-ci gisait là, immobile, sans bouger. Je m’absentai le temps de me soulager. Quand je revins, elle avait disparu. Pas possible, me dis-je, personne n’a accès au jardin. Il est ceint de murs hauts, la route est à l’écart et les immeubles sont trop loin. Si quelqu’un escaladait, il le ferait depuis la porte près de la fenêtre et je le verrais certainement. Je jetai le lendemain matin un billet de cinq. Et une pièce. Et un chèque.

Je demeurai bien attentif et concentré, mais après un frisson je dus fermer la fenêtre. Le temps de le faire et tout avait bel et bien disparu. Pour vérifier tout de suite, je jetai un prospectus publicitaire importun, ainsi qu’un relevé bancaire, de même que le chapelet de ma grand-mère accroché au mur. Le temps pour moi de tousser et tout avait déjà disparu. Alors j’allai chercher quelque chose de plus tentant, me disant que je me concentrerai plus encore dans ma surveillance. Je fis valser la télévision dehors, un sac plastique et du papier, l’alliance que j’avais enlevée du doigt mort de ma mère. Cette fois pas besoin d’être distrait, les choses disparurent là, juste sous mes yeux. Je ne saurai dire comment, elles s’évanouissaient comme quand on fixe la lune, qu’elle semble immobile et, dès que l’on se retourne, elle a déjà disparut derrière l’immeuble.

Je m’aperçus que plus je me débarrassais des choses, plus le jardin devenait vivant, toujours plus vert. Le printemps était désormais à la porte et nous l’aurions tous vu de la fenêtre mais les bourgeons en quelques minutes étaient déjà devenu des feuilles. Après avoir jeté la tenue de l’usine, je vis ces feuilles devenir des fleurs. Je cherchai le pistolet de mon père, le fusil de grand-père, le binocle de mon arrière-grand-père et le taille-crayon de mon trisaïeul. Et les fleurs devinrent d’autres fleurs en forme d’oiseaux qui devinrent ensuite de vrais oiseaux qui se mirent à voler et à versifier. Alors, j’ouvris grand l’armoire et pris tous les vêtements que je n’avais jamais portés. Tous les livres que je n’avais jamais lus que je conservais seulement dans le meuble, je les enlevais de l’étagère pleine de poussière. Le calendrier, le téléphone, les clés de la voiture. Le jardin sous mes yeux était devenu un bosquet plein de vie, fourmillant d’animaux colorés qui parlaient entre eux de différentes façons mais qui paraissaient se comprendre. Certains étaient assis, les jambes croisées, sur le petit banc ; d’autres glissaient les pattes en l’air ; d’autres encore se balançaient sur l’escarpolette avec leurs queues qui balayaient les confettis. Je renversai alors par la fenêtre les petites vitrines avec les souvenirs de voyages accomplis par d’autres que moi, les photos des défunts, les rideaux occultants, la nourriture en boite. J’ouvris le robinet de la douche et avec le flexible tiré jusqu’au-dehors je vidai le cumulus d’eau chaude. La mare que cela créa devint en peu de temps un lac immense dans lequel nageaient des poissons luisants que je n’avais jamais vus de ma vie. J’entendais la nuit les vagues se briser contre les parois de la maison. Enfin, je jetai dehors toutes les ampoules et les lampes, les torches et les piles et tout se transforma en musique. Non pas celle qui vient d’un instrument. Plutôt quelque chose dont j’eus la sensation à la fois de ne l’avoir jamais entendue et de l’avoir oubliée. Puis, je vis qu’arrivait ce qui manquait.

Un homme vint.

Il le fit en chantant, toussant, crachant, dans le fracas d’une chaine qui tombe à terre avec son cadenas. Il n’était pas nu ou couvert de feuilles, il portait l’uniforme de la municipalité.

Je me baissais pour ne pas me faire voir. Je le vis faire une ronde de contrôle et s’arrêter sur chaque détail. Il essaya le système d’irrigation, il fit mine de faire un tour sur le toboggan, mais il se retint. Il resta là à regarder, les poings sur les hanches, hochant de la tête. Après les pas pesants de son passage, le jardin était redevenu tel quel, comme avant. L’herbe jaune, les balançoires rouillées, les arbres dépouillés sans fruit,  les confettis de février qui formaient une croûte dure. Je vis qu’en partant il avait laissé le portail ouvert. J’entendis alors tant de voix revenir de nouveau à l’intérieur avec bruit. On se disputait pour son espace, on demeurait serrés les uns sur les autres, des tas de gens râlaient. Ils disaient sans cesse « Finalement ! »  ou «  Il était temps ! ». Ils reniaient les milles promesses que chacun d’eux s’était faites et ils criaient, crachant leur salive sur les lèvres des autres.

Je fermai la fenêtre épouvanté et me retournai.

Ma maison était demeurée vide.

 

 

(traduction Bernard Biancarelli)

 

 

 

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